La leggenda di Scilla e Cariddi.
Ecco come i greci vedevano le coste di Sicilia e Calabria.
Sin dai tempi più remoti, lo stretto di Messina è sempre stato un luogo ricco di suggestione e di fascino che ha contribuito significativamente a creare i tanti miti ad esso connesso. La navigazione dello Stretto, infatti, ebbe nell’antichità una bruttissima fama e realmente presenta notevoli difficoltà, specialmente per le correnti rapide ed irregolari. Anche i venti vi spirano violenti e talora in conflitto tra loro.
A volte, le correnti raggiungono una velocità di 9 Km all’ora e scontrandosi danno luogo a enormi vortici che sicuramente terrorizzavano i naviganti. I più noti sono quello che gli antichi chiamarono Cariddi (colei che risucchia), che si forma davanti alla spiaggia del Faro e l’altro Scilla (colei che dilania), che si forma sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punto Pizzo. Questi due vortici famosi derivano dall’urto delle acque contro Punta Peloro e Punta Torre Cavallo.
Il vortice Cariddi è accompagnato talvolta da un rimescolarsi delle acque così violente da mettere in pericolo le piccole imbarcazioni. Tra le leggende più belle appartenenti al patrimonio culturale dell’antica Messina, la più nota è, senza dubbio, la leggenda che ricorda l’esistenza del mostro Cariddi, mitica personificazione di un vortice formato dalle acque dello stretto di Messina.
La ninfa Cariddi
Cariddi era una ninfa, figlia di Poseidone (dio del mare) e di Gea (dea della terra) ed era continuamente tormentata da una grande voracità. Si narra che avrebbe rubato e divorato i buoi di Eracle che era passato dallo Stretto coll’armento di Gerione, e che Zeus, per punirla, l’avrebbe tramutata in un orribile mostro.
Alcuni autori narrano invece, che la ninfa sarebbe stata uccisa da Eracle stesso, ma poi resuscitata da suo padre Forco. In ogni caso, si sa di certo che Omero fu il primo a parlarne, dicendo che il mostro ingoiava tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla trattenendo, però, tutti gli esseri viventi che vi trovava. Anche Virgilio descrive Cariddi nel suo poema intitolato Eneide.
Odissea, canto XII
L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.
La ninfa Scilla
Sull’altra sponda, presso l’attuale città di Reggio Calabria, un tempo viveva un’altra bellissima ninfa di nome Scilla, figlia di Tifone ed Echidina (o secondo altri di Forco e di Craetis).
Scilla era solita recarsi sugli scogli di Zancle per passeggiare sulla spiaggia e fare il bagno nelle acque limpide del mar Tirreno. Una sera, in quei luoghi incontrò un dio marino che un tempo era stato un pescatore di nome Glauco.
Secondo la leggenda Glauco si innamorò pazzamente della ninfa tanto da respingere per lei Circe. La maga, offesa e indispettita, decise di vendicarsi tramutando la ninfa Scilla in una creatura mostruosa con sei teste di cani rabbiosi e ringhianti. Così Scilla andò a nascondersi presso lo stretto di Messina in un antro là dove la costa calabra si protende verso la Sicilia. Da lì seminava strage e terrore tra i naviganti che imprudentemente le passavano vicino.
Per questo motivo, nell’antichità, tutti i naviganti stavano lontani da questi luoghi, tutti tranne il mitico Ulisse che spinto dalla sua proverbiale curiosità turò le orecchie dei suoi compagni con dei tappi di cera e da questi si fece legare all’albero della sua nave per ascoltare il canto ammaliatore e letale delle sirene che affollavano questi mari.
Odissea, canto XII
Scilla ivi alberga, che moleste grida / Di mandar non ristà. La costei voce / Altro non par che un guaiolar perenne / Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce / Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse, / Non mirerebbe in lei senza ribrezzo, / Dodici ha piedi, anteriori tutti, / Sei lunghissimi colli e su ciascuno / Spaventosa una testa, e nelle bocche / Di spessi denti un triplicato giro, / E la morte più amara di ogni dente.
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